Le notizie arrivate a Natale dalla Nigeria, con la serie di attentati contro le chiese cristiane che hanno provocato decine di morti, sono come un pugno nello stomaco per noi cattolici italiani che abbiamo come orizzonte natalizio una tranquilla messa della Veglia – se non siamo troppo stanchi sennò andiamo a quella del mattino –, il pranzo di famiglia e il predicozzo contro il consumismo che ci mette a posto la coscienza. Sono come un pugno nello stomaco perché ci ricordano che in molte parti del mondo c’è poco da scherzare, si rischia la vita soltanto per l’intenzione di celebrare la messa. E non è piacevole sentirselo ricordare mentre si sta addentando una fetta di panettone o di qualche altro dolce tipico.
In realtà quello che prevale è la sensazione di una sproporzione tra le condizioni che viviamo qui e quello che altri fratelli nella fede vivono in Nigeria, ma anche in Pakistan, In India, in Cina, in Egitto, in Palestina, in Iraq, in Turchia e chissà in quanti altri paesi ancora. E in fondo ci riteniamo fortunati, “siamo nati dalla parte giusta del mondo” sentiamo dire tante volte. Ma forse soltanto perché usiamo dei criteri sbagliati. Sia ben chiaro: dovremmo davvero ringraziare Dio ogni minuto della nostra vita per quello che abbiamo, ma ciò non toglie che noi rischiamo di scambiare la Grazia con le condizioni di benessere materiale e fisico, la positività del disegno di Dio su di noi con l’andar bene delle cose. Vale a dire: ci sentiamo più fortunati perché le cose ci vanno bene, non perché siamo più vicino a Dio – qualsiasi sia la nostra situazione -, più “pronti con le lampade accese” all’incontro con lo Sposo.
Se invece adottiamo il criterio della vicinanza con Dio, allora forse dobbiamo rivedere la classifica dei fortunati e degli sfortunati: chi subisce o rischia il martirio ogni giorno, per il solo fatto di segnarsi con la croce o per partecipare alla messa, è enormemente più avanti di noi, che facciamo fatica perfino a essere fedeli a un piccolo gesto di digiuno.
Certo, non è necessario augurarsi per noi la sofferenza né tantomeno di essere dilaniati da bombe o torturati a morte, ma è indispensabile guardare con occhi diversi a coloro che vivono in queste difficili realtà: non sono soltanto fratelli nella fede che dobbiamo aiutare sia nella preghiera, sia economicamente sia politicamente per quel che possiamo – e questo è certo doveroso -, ma sono anzitutto dei testimoni da cui dobbiamo imparare l’amore a Gesù, l’amore alla Verità che viene prima di ogni tornaconto personale. Non dobbiamo guardali con compatimento, ma con ammirazione. E imparare la stessa tensione alla santità per affrontare nel modo più vero le mille insidie (per l’anima) di una vita comoda.
Fonte: www.labussolaquotidiana.it del 27 dicembre 2011