(di Luigi Geninazzi) È stato l’uomo simbolo della rivoluzione di velluto, l’eroe della svolta democratica dell’89 in una Cecoslovacchia dominata da uno dei regimi comunisti più oppressivi del mondo. Ma Vaclav Havel ha saputo anche essere la coscienza critica dell’Europa, un ruolo che ha esercitato dapprima come intellettuale del dissenso e poi come figura politica di primissimo piano.
Scrittore, filosofo e drammaturgo, Havel era stato catapultato inaspettatamente ai vertici dello Stato sull’onda della rivolta popolare e non violenta che in poche settimane, alla fine del 1989, era riuscita ad abbattere il comunismo. Ma quella protesta affondava le sue radici nel movimento di resistenza morale nato all’indomani della Primavera di Praga del 1968, una breve stagione di libertà schiacciata dai carri armati sovietici.
Vaclav Havel ne fu il coraggioso rappresentante, autore insieme ad altri intellettuali di ‘Charta ’77’, un manifesto per la democrazia che metteva al centro la dignità inviolabile della persona. Alla base stava il concetto del ‘potere dei senza potere’, titolo di un suo famoso scritto dove alla menzogna del regime si contrapponeva la vita nella verità, invitando a considerare la dimensione morale come fattore decisivo per il cambiamento sociale e politico. Era un intellettuale laico dall’anima naturaliter christiana, come dimostrò accogliendo Giovanni Paolo II a Praga nell’aprile del 1990, pochi mesi dopo il crollo del comunismo. «Non so se so cosa sia un miracolo – disse –. Ma so che quello che stiamo vivendo adesso è un miracolo».
Una frase che resterà per sempre nella storia. Havel mi è sempre apparso come un personaggio timido e schivo, incisivo e pacato nelle sue riflessioni che pronunciava con l’inconfondibile erre arrotondata, avvolto in una nuvola di fumo alimentata continuamente dalle sue innumerevoli sigarette. L’ho conosciuto nei lontani anni Ottanta, andando a fargli visita nella sua casa di campagna dove si era rifugiato dopo essere uscito di prigione (vi sarebbe rientrato di lì a poco, sottoposto a continui arresti dalla polizia comunista).
«Sono solo uno scrittore che non ha mai avuto l’ambizione di giocare alla rivoluzione o di fare politica», mi disse. Fu costretto a ricredersi e quando, dopo la sua elezione a presidente della Repubblica, ebbi l’occasione di rivederlo in uno splendido salone del Castello di Praga, mi colpì la sua aria malinconica e quasi rassegnata, divenuto politico controvoglia. Per uno strano scherzo del destino, Vaclav Havel è stato al tempo stesso il primo e l’ultimo presidente democratico della Cecoslovacchia postcomunista, dal 1989 al 1992. Restò al Castello anche dopo la secessione della Slovacchia nel 1993, un divorzio di velluto che cercò inutilmente di ricomporre. Ci rimase per altri dieci anni, fino al 2003, l’unico della generazione dei dissidenti a mantenersi al potere così a lungo. Tutti gli altri combattenti della guerra fredda, a cominciare da Lech Walesa, furono costretti ad abbandonare molto presto la scena politica. Havel è stato il leader indiscusso di un Paese dimezzato che l’ha sempre applaudito senza però capire i suoi insistenti richiami a un ‘capitalismo dal volto umano’. Negli ultimi tempi appariva sempre più angosciato da un’Europa priva di ogni ideale, brodo di cultura di nuovi e pericolosi nazionalismi. Oggi, con la sua morte, il confuso teatro della vicenda umana resta orfana di un presidente-drammaturgo che aveva saputo trasformare l’aborrita politica nella metafora allusiva di una verità più grande.
Luigi Geninazzi
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