(di Davide Rondoni) La notizia di due morti non è mai una bella notizia. Anche se uno dei due che hanno terminato il proprio cammino era noto come sanguinario, duro dittatore di uno stato pericoloso come la Corea del Nord. La notizia di due morti che hanno qualcosa in comune e molto di diverso può, però, servire a comprendere meglio qualcosa che sta succedendo nella nostra epoca e che riguarda non solo i diretti protagonisti, ma tutti noi.
La morte di Kim Jong-il, avvenuta per un banale infarto mentre si trovava in treno come un qualsiasi pensionato o pendolare stressato, ha trovato nella coincidenza con la morte di Vaclav Havel un colpo di teatro degno di un commediografo profondo e ironico proprio come lo scrittore-presidente della Repubblica Ceca. Affiancata all’immagine dell’intellettuale che fin dagli anni 70 del Novecento ha combattuto con il pugno dell’intelligenza rivestita di velluto, con la parola artistica e con il servizio personale l’ideologia comunista, la maschera impenetrabile e gommosa del dittatore defunto appare ancora più grottesca. La chiamavano l’ultima icona del comunismo reale. Perché sembrava d’altri tempi, e invece no.
Sono questi i tempi di Vaclav e anche di Kim. Anche un regista pittorico e fantasioso come Paolo Sorrentino ha dedicato al padrone dell’altra Corea una specie di ritratto narrativo qualche mese fa. Grottesco e ancor più disumano, se ripercorriamo la storia recente e passata di un regime che lascia dietro di sé un’ininterrotta e immensa scia di sangue e di repressione in nome del comunismo. Regime, si badi, ben saldo tuttora, e forse – come temono alcuni – più pericoloso e tiranno in futuro. Le grandi parate, le manifestazioni di grandezza del potere nordcoreano sono la commedia aspra dell’uomo quando vuole organizzare tutto. Quando presume – come pensavano i maestri e i capimastri del comunismo – di poter controllare tutto. L’ironia intelligente di Havel, che non nascose nemmeno la sua debolezza e la sua malattia, altro che parate, stava proprio nell’aver compreso e dichiarato a tutti che alla base di quel pensiero c’è un errore fondamentale. La tirannia comunista vigente in quella parte della Corea o vigente tra gli applausi di molti intellettuali e politici nostrani in gran parte d’Europa fino al 1990 non era la realizzazione difettosa di una idea giusta. No, era la realizzazione inevitabile di una idea sbagliata.
Per questo Havel non aveva paura. Il suo potere non stava in una quantità di potere, ma nella verità intorno all’uomo. Quando, nella indifferenza del mondo culturale italiano, scrisse negli anni 70 ‘Il potere dei senza potere’ fu pubblicato non dalle grandi case editrici, paladine – dicono loro, che lo han ripubblicato nel ’91! – della libertà. Ma da un piccolo e attivissimo centro studi sull’Europa orientale (C.S.E.O) guidato da don Francesco Ricci, un prete forlivese amico di Karol Wojtyla, che presentiva e seguiva i germi di libertà rischiosamente vivi oltre la ‘cortina di ferro’. Ben prima che Havel diventasse l’Havel che ora tutti riconoscono e dicono di stimare, c’era chi aveva visto e compreso chi aveva ragione e chi no. Il volto, così umano e senza trucchi di Havel e la maschera impenetrabile del Dittatore Kim appartengono allo stesso tempo. Sono mondi lontani, ma incarnano, a ben vedere, il volto finale, la icona di due modi di intendere il potere ancora ben presenti e attivi tra di noi. Il potere è sempre imperfetto. Ma quando si maschera di perfezione, quando pretende di fondare in se stesso la fraternità tra gli uomini, e di essere la soluzione dei problemi umani, quando fa somigliare perciò i suoi detentori a semidei impenetrabili, ecco diviene disumano, fallimentare, e tanto tragico quanto ridicolo. La faccia di Havel, vicino a quella del dittatore Kim (pace all’anima loro, in egual misura) ci ricordano questa attuale, viva e attiva differenza.
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