Come andrà a finire la storia dell’euro è un enigma. Ma come è cominciata? Le radici di quella moneta sono due, tecnocratica l’una e per così dire umanistica l’altra. Per molti europeisti, gente convinta che la prima metà del Novecento sia stata un incubo da non rivivere, la moneta comune europea era ed è una bandiera di civiltà liberale e di pace, il vero garante della fine delle ostilità franco-tedesche e delle grandi guerre continentali. L’Europa occidentale, a cavallo della caduta del comunismo e della minacciosa riunificazione tedesca sotto le insegne dell’economia sociale di mercato, era chiamata a pagare il pegno monetario della sua futura unità sovranazionale. Ci voleva il tintinnio del denaro per trasformare l’inferno in un purgatorio e poi, forse, in uno storico paradiso di libertà e integrazione dei commerci, a confronto con campioni della crescita tanto più grandi, a est e a ovest, degli staterelli-nazione con le loro divise di foggia antica (il marco, il franco, la lira, la peseta). Il mercato comune, poi il mercato unico, poi la moneta unica e infine il superstato o un potere superstatale e sovranazionale capace di conciliare l’inconciliabile, armonizzando lingue, culture, civiltà costituzionali e altri usi o way of life diversi e conflittuali: questo era lo sfondo del progetto monetario.
A parte i sognatori umanisti, c’erano i tecnocrati di puro ceppo finanziario che approntarono prima il sistema monetario, il serpente, e poi di crisi in crisi la moneta di tutti come garanzia della libertà di commercio, come scudo contro i comportamenti lassisti, come frontiera chiara oltre la quale sarebbero finite le tendenze alla spesa pubblica facile, le basse produttività, in uno spirito di competizione mondiale che solo la classe dei banchieri poteva sostenere.
È l’euro della Banca centrale di Francoforte, quello disegnato e immaginato, per l’Italia, dall’asse di ferro tra Carlo Azeglio Ciampi, il meglio del lignaggio Bankitalia, e i grandi capi della Bundes-bank, cane da guardia contro l’inflazione, più il resto delle tecnocupole finanziarie europee. Una monta magica prodotta dall’incrocio fra interessi ben difesi e disegnati e slancio disinteressato verso un futuro di prosperità comune.
Ma c’era chi era contrario. Lo ha ricordato Pierluigi Battista nel Corriere della sera, scrivendo che oggi ai contrarian di ieri si dovrebbe chiedere scusa per l’ostracismo che hanno subito le loro idee, e in qualche caso (quello di Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia) anche le loro persone. Ho sottomano il testo di una feroce requisitoria contro l’euro di Carlo Ripa di Meana, testimone della storia europea recente tra i più fieri e anche capricciosi, ma lucido. «Si è rovesciata» disse Ripa al Parlamento europeo in una fulminea dichiarazione di voto contrario «la sequenza europeista: invece di uscire dalla logica dei trattati tra stati, muovendo verso quella della Costituente europea, si opta per la moneta unica lanciata nel vuoto. È un gioco d’azzardo che comporta rischi altissimi senza offrire garanzie e contropartite». Era il 2 di maggio del 1998. Letta 13 anni dopo, in effetti, fa impressione.
L’euro può ancora mettersi in salvo. Ma alla prima grande crisi, lo ha notato un osservatore americano sul Wall Street Journal, è diventato un casus belli o può diventarlo. Partita come moneta della pace e della unificazione, quel pezzo di carta, quella moneta tintinnante può diventare un elemento divisivo assai peggiore dei peggiori incubi degli umanisti. Bisogna tifare per il meglio, e ci mancherebbe, e lavorare per il meno peggio, ma è una lezione che in futuro non si dovrà dimenticare. Lo scetticismo è il principio di ogni conoscenza, a quanto sembra.
Giuliano Ferrara
Mercoledì 7 Dicembre 2011
Panorama.it