“Un profeta tra fede e libertà”. Così Cossiga, cattolico liberale, ricordava il grande cardinale inglese presidente emerito della Repubblica apparso l’anno scorso sulla rivista Vita e Pensiero.
Parlare di John Henry Newman, leggere le sue opere, capirne fino in fondo il pensiero non è cosa semplice, anzi è cosa difficile assai. Lo è non solo perché il suo dire è il frutto di una vasta e profonda cultura, ma perché egli è un pensatore del tutto originale. Egli è stato un poeta, un novelliere, un drammaturgo, uno dei più preziosi, per così dire, utenti della lingua inglese. Egli, che fu un grande e originale filosofo e un grande e originale teologo, rifiutò però sempre la qualifica vuoi di filosofo che di teologo. John Henry Newman è un pensatore difficile perché è un inglese, un inglese nel senso più profondo del termine, un eminent victorian, un eminente vittoriano, come lo consacrò in un celebre libro, Eminent Victorians, lo storico inglese Giles Lytton Strachey. I suoi riferimenti teologici non furono, né da anglicano né da cattolico, i teologi scolastici; non furono quindi né un Tommaso d’Aquino, né un Duns Scoto, ma i grandi Padri della Chiesa, sia orientali che latini, e tra questi naturalmente Agostino d’Ippona.
Il suo riferimento filosofico non fu la Philosophia Perennis, ma un vescovo anglicano appartenente ai Caroline Divines (i teologi anglicani del XVII secolo), Joseph Butler, e in particolare il libro “Della analogia della religione naturale”, volume che – gli strani casi della vita! – mi fu regalato da Aldo Moro per un mio onomastico; quel Joseph Butler che influenzò pensatori di lingua inglese come David Hume, Thomas Reid e Adam Smith, non del tutto estranei non dico alla cultura, ma anche al pensiero religioso di Newman.
Il pensiero di John Henry Newman era ben conosciuto a padri e periti conciliari: e tra questi anche al già ben noto teologo tedesco Joseph Ratzinger.
Durante il Concilio Vaticano II, ci si riferì a Newman – come a un altro originale filosofo e teologo, Antonio Rosmini – come a un ispiratore e “padre assente” del Concilio. Dire esaustivamente quanto le decisioni conciliari debbano ai suoi insegnamenti esigerebbe un oratore molto, ma molto più ferrato di me, che non ho coltivato né la filosofia né la teologia, ma ho soltanto “razzolato” in esse!
In un articolo scritto sull’Osservatore Romano nel 1964, il filosofo cattolico Jean Guitton scriveva: “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico. E’ come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati: così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Mi soffermerò su tre punti.
Le dichiarazioni del Concilio hanno statuito sulla libertà della coscienza e sul primato della coscienza nel campo del pensiero e dell’etica, anche se – come notò in un suo studio il teologo Joseph Ratzinger – non senza qualche ambiguità e indeterminatezza. Il concetto di libertà e di primato della coscienza è al centro del “Decreto sulla libertà religiosa”. Questo concetto è caratteristico del pensiero di Newman che lo espose in modo brillante nella famosa “Lettera al Duca di Norfolk”, nella quale confutò le gravi osservazioni sulla libertà dei sudditi cattolici della Corona di osservare le leggi del Regno e di servire lealmente la Corona stessa, dopo la proclamazione, da parte del Concilio Vaticano I, del dogma dell’infallibilità; dogma contro la sostanza del quale Newman, a differenza del suo grande amico cattolico napoletano-bavarese-inglese, lo storico della libertà, regius professor dell’Università di Cambridge, il cattolico-liberale Lord Acton, non aveva scritto, ma solo si era interrogato pubblicamente sull’opportunità di proclamarlo in quel momento storico (ma subito dopo obbedendo silenziosamente). Lo stesso Papa che lo aveva proclamato, di fronte alla dura reazione del Cancelliere germanico von Bismarck, sentì la necessità di scrivere una lettera ai vescovi tedeschi, in risposta a una lettera che essi gli avevano scritto, chiarendo il contenuto e i limiti dell’infallibilità papale. Proprio nella già citata “Lettera al Duca di Norfolk” Newman conclude il capitolo sulla coscienza con le celebri parole: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa”.
Per spiegare che cosa fosse la coscienza, nel suo saggio appunto a essa dedicato, forse quasi temerariamente e con parole che a suo tempo scandalizzarono molti, specie tra gli ultramontani, affermava: “Sembra […] che vi siano casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. E ancora: la coscienza “non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti”. E addirittura: “La coscienza è l’originario vicario di Cristo”.
Ma Newman più oltre aggiunge: “Per timore di non venire fraintesi, debbo ripetere che, quando io parlo di coscienza, intendo quella coscienza intesa nel suo vero significato. Per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema, benché non infallibile, del Papa, essa dev’essere qualcosa ben maggiore di quell’infelice contraffazione che […] viene ora popolarmente intesa”. Newman ricorda anche quella sentenza, propria oltre che di Tommaso d’Aquino anche dei teologi e canonisti della Scuola Salmaticense e dei gesuiti del XVII secolo, secondo cui la coscienza va sempre seguita anche se erronea, e anche se l’errore sia frutto della propria colpa. La coscienza di cui Newman invoca il primato è la “tuta et informata conscientia” dei più certi moralisti, una coscienza che anche se erronea – perché l’uomo non è perfetto e poche sono le così dette “rivelazioni personali” – sia frutto di preghiera, di onesta informazione e di meditazione.
Questo primato della coscienza invocarono non con dichiarazioni, ma con fatti, coloro che non condivisero la conclusione del Concordato tra la Santa Sede e il Terzo Reich e il conseguente ordine impartito attraverso i vescovi ai cattolici tedeschi di sciogliere il Partito del centro cattolico e il Partito cristiano-sociale bavarese. Non si tratterebbe di ingiusto appello al primato della coscienza disattendere l’insegnamento del Papa in materia di aborto, eutanasia, così detti patti di solidarietà sociale, se si ritenesse di approvare leggi civili secondo il criterio del “male minore”, se a esempio, qualora i deputati e senatori cattolici dichiarassero di volere votare contro siffatti provvedimenti e il governo minacciasse per ritorsione di denunziare il Concordato o di abolire l’insegnamento della religione, il giudizio sul “che fare” sarebbe di competenza dei politici per quanto attiene alla credibilità della minaccia, ma del Papa e dei vescovi, per quanto attiene alla ponderazione degli interessi.
Grande influenza ha poi avuto John Henry Newman nell’esaltazione del laicato, e nella definizione della sua posizione e della sua funzione nella Chiesa. Già nel suo famoso saggio sugli ariani o precisamente sull’arianesimo, dottrina cristologica elaborata da Ario e condannata come eresia dal primo Concilio di Nicea – saggio nel quale cominciò a esternare i suoi dubbi sull’adesione di tutta la Chiesa d’Inghilterra ai principi stabiliti dagli antichi Concili –, egli aveva messo in luce come di fronte all’imperatore e alla stessa grande maggioranza dei vescovi che avevano aderito alla dottrina di Ario o che tacevano, furono i laici, i semplici fedeli, che tennero salda la retta fede e rimasero nell’ortodossia e a essa assicurarono la fedeltà della Chiesa. Questa dottrina della funzione del laicato John Henry Newman sviluppò, poi, da cattolico, nel saggio pubblicato nell’ultimo numero del periodico cattolico inglese The Rambler, fondato da Lord Acton e di cui questi gli aveva ceduto la direzione nella speranza di evitare che i vescovi inglesi ne ordinassero la chiusura.
Di fronte a monsignor Talbot, che affermava che i laici cattolici dovevano limitarsi ad andare a caccia e a pesca, giocare a cricket, sostentare la Chiesa, organizzare banchetti e fare figli, nel saggio intitolato “Sulla consultazione dei fedeli laici in materia di fede”, egli spiegò come il popolo di Dio, tutto il popolo di Dio e quindi anche i laici, sia soggetto di infallibilità e come quindi sia non soltanto lecito ma doveroso “sentire i laici in materia di fede”. A conferma della sua tesi, egli ricordò come Pio IX, prima di proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione, avesse chiesto ai vescovi non solo cosa essi pensassero, ma cosa pensasse il popolo di Dio. Questo saggio fece precipitare la situazione, perché da alcuni fu considerato eretico o almeno apud haeresim. Già, perché fino a quando – nonostante l’opposizione di un altro convertito, il cardinale Manning, il vescovo ultramontano –, Leone XIII lo fece cardinale, John Henry Newman fu spesso sospettato di eterodossia e molto soffrì non solo pro Ecclesia, ma anche propter Ecclesiam!
Il terzo per così dire “spazio conciliare” nel quale fu grande l’influenza del pensiero di John Henry Newman – giustamente definito, dopo la sua morte, “un profeta e un genio” – fu quello del ritorno dello studio teologico e della stessa catechesi alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, cui ampiamente si riferirono i padri conciliari: sul ritorno alla Bibbia si sono fatti molti passi avanti (pensiamo all’ultimo Sinodo dei vescovi). L’originale dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, dottrina che non vuole certo contraddire quanto sempre affermato dalla Chiesa (essersi la Rivelazione chiusa e conclusa con la predicazione degli apostoli), ha posto in luce, cosa ormai pacificamente accettata, che la storia, la storia dell’uomo, nella quale si è manifestata la Rivelazione e si svolge la storia della sua salvezza, questa storia con le ricerche e l’esperienza umana dilata e precisa il significato del dogma, ne amplia gli orizzonti, lo sviluppa, insomma. E questo vale anche per l’insegnamento ordinario del Papa e dei vescovi. Così, la storia, la storia della libertà, la storia della libertà dei popoli, ha dato un diverso significato a quanto nell’insegnamento di Pio IX, particolarmente nel “Sillabo”, sembrava – e forse nell’intenzione privata del Papa era davvero – la condanna del concetto di sovranità popolare, la “inaudita pretesa dei governati a scegliersi i propri governanti” – principio della sovranità popolare invero già affermato e teorizzato dai teologi e dai giuristi gesuiti del XVII secolo, tra i quali il sommo padre Francisco Suárez –, dovendo essere interpretato invece nel senso che “la maggioranza dei voti non fa del falso il vero né dell’ingiusto il giusto”.
Così la vittoria dell’Unione antischiavista contro la Confederazione schiavista nella Guerra Civile americana servì a illuminare quei vescovi cattolici del Sud che difendevano la schiavitù dei neri, argomentando che la loro cattura in Africa, il loro trasporto nelle Americhe, nazioni cristiane, in quanto utile al loro indottrinamento cristiano e alla loro salvezza eterna, poteva se non giustificare, controbilanciare la loro riduzione in schiavitù al servizio di bianchi. E così la persecuzione degli ebrei culminata con la Shoah modificò radicalmente non solo l’atteggiamento, ma lo stesso pensiero non dico teologico, ma per così dire pratico, di gran parte della Chiesa nei confronti degli ebrei, in particolare per la testimonianza di fede culminata nel martirio di sante come Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, o la testimonianza di vescovi come quello di Münster, il beato Graf von Galen, o di Berlino, Konrad von Preysing. Svolta epocale nel rapporto con l’ebraismo, inoltre, è quella costituita dall’insegnamento e dalla prassi di Giovanni Paolo II che, per primo, visitò una sinagoga in Roma, sua sede episcopale e capitale della cristianità, là ove un tempo i giudei erano stati rinchiusi nel ghetto da Papi precedenti, di cui uno, Pio IX, è stato peraltro da lui stesso proclamato beato, e chiamò coloro che per secoli erano stati definiti nella stessa liturgia del Venerdì Santo come i “deicidi”, addirittura “nostri fratelli maggiori”. Per questo sbaglia chi, abbagliato da sole parvenze, considera il Concilio Vaticano II come un “Concilio di rottura” rispetto agli altri Concili, in particolare il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I, e non invece il “Concilio del rinnovamento nella continuità”, un Concilio che ha annunziato verità, come la collegialità episcopale, che erano già comprese nella Rivelazione, Nuovo Testamento e Tradizione, che si sono venute disvelando nella storia e che sono state per così dire “illuminate” nella storia della Chiesa che è parte, o meglio, comprende la storia per così dire “profana”, la storia della Città dell’uomo, attraverso la ricerca, lo studio, la meditazione, la preghiera e la testimonianza non solo di vescovi e teologi, ma anche dell’intero popolo di Dio. Può certo considerarsi un miracolo intellettuale che John Henry Newman avesse compreso e formulato questa legge di sviluppo della Chiesa nella, attraverso e grazie alla storia, che è sempre, in un Suo misterioso disegno, la storia di Dio.
Per quanto attiene all’ecumenismo, fu sempre John Henry Newman che pose in evidenza, da anglicano e da cattolico, ciò che univa le Chiese cristiane, pur non sottacendo cosa le divideva. Nel suo “Tract 90”, l’ultimo dei famosi “Tracts for The Times” – la collezione di saggi anonimi pubblicata dai grandi autori del Movimento di Oxford per combattere l’ispirazione liberaleggiante e protestante di parte della Chiesa d’Inghilterra, della quale essi volevano esaltare invece i tratti di cattolicità e di apostolicità –, Newman, per avvicinare le Chiese di Canterbury e di York alla Chiesa di Roma, tentò di dare un’interpretazione dei famosi Trentanove Articoli di Fede della Chiesa d’Inghilterra che fosse conforme all’insegnamento del Concilio di Trento: venne subito la condanna prima da parte del vescovo anglicano di Oxford e poi di tutti i vescovi della Chiesa d’Inghilterra, e fu la fine sia dei Tracts sia del Movimento di Oxford, e l’inizio di quel cammino che doveva portare nella Chiesa cattolica romana l’allievo del Trinity College, il fellow e tutor dell’Oriel College e parroco della Chiesa universitaria anglicana di Saint Mary the Virgin e della Chiesa di Littlemore – piccolo centro nel quale egli poi si ritirò per tre anni con alcuni suoi amici per studiare, meditare e pregare –; e tra poco, infine, alla sua proclamazione come beato.
John Henry Newman è stato il grande ispiratore dell’ecumenismo. Da teologo anglicano egli fu un sostenitore della cosiddetta Via Media, una terza via tra protestantesimo luterano e calvinista e cattolicesimo romano; ma in questa sua visione egli pensava di creare un ponte di dialogo tra le varie confessioni cristiane. E anche quando scrisse il Tract 90 pensava di gettare un ponte tra la “sua Chiesa”, la Chiesa d’Inghilterra, e quella che cominciava a sentire parimenti “sua”, la Chiesa cattolica di Roma: Chiese che riteneva già unite dai caratteri dell’universalità e dell’apostolicità. Ma Newman, che anche quando entrò nella Chiesa cattolica fu ordinato in essa sacerdote e poi ne divenne cardinale, mantenne un grande affetto per la sua prima Chiesa e in particolare per i suoi antichi amici del Movimento di Oxford, certo sempre sperando nel ristabilimento della comunione di Canterbury e di York con Roma, sempre ritenne che dialogo e confronto dovessero avvenire in vista di una futura “unità nella verità”, che per dialogare e confrontarsi occorresse essere consapevoli, chiari e fermi nella propria identità. John Henry Newman è certo nel Paradiso e gode dell’imperturbabilità di chi vive nell’eternità, ma se potesse avere le passioni di un vivente nell’effimero, oggi si dorrebbe assai dell’evoluzione non solo liberal ma libertineggiante della Chiesa d’Inghilterra che lui ha tanto amato. Ho sempre ritenuto che l’ecumenismo e il dialogo ecumenico siano fatti più che della ricerca di concordanze teologiche e giuridico-canoniche, da un comune impegno di servire il prossimo, e il più prossimo di tutti, il povero e l’affamato, con opere di carità spirituale e materiale; e ho sempre ritenuto che l’unità sarà frutto della preghiera, della carità e della santità e che a essa, più che i teologi, abbiano dato e possano dare un prezioso contributo i martiri e i testimoni delle confessioni cattolica, anglicana, luterana e ortodossa: dai campi di concentramento nazisti all’Uganda, ai gulag sovietici, dai pastori protestanti ai sacerdoti cattolici ai pope russi. Anche per questo il mio augurio è che John Henry Newman possa con la sua beatificazione testimoniare pubblicamente della sua carità e della sua santità impegnando tutti i cristiani con la loro carità e testimonianza a lavorare perché Nostro Signore Gesù Cristo doni anche nel tempo a tutti i cristiani l’unità nella Sua unica, santa e apostolica Chiesa.
di Francesco Cossiga
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