«Sono ragazzi che protestano non perché vogliono cambiare il sistema, come l’abolizione degli ordini professionali o la liberalizzazione del mercato del lavoro. Semplicemente, rivendicano la loro porzione. Cioè vogliono pensioni, sovvenzioni, contratti a vita, o tutto quel welfare che hanno avuto i loro genitori»
Di Chiara Rizzo
Fabrizio Rondolino, giornalista torinese e un convinto riformista, com’è, vista dalla sua angolazione, come giudica le recenti manifestzioni di piazza? Cosa pensa di quanto successo a Roma e di quel che accadrà domenica alla manifestazione No Tav a Chiomonte? Marco Travaglio, in un editoriale sul Fatto, ha bacchettato chi a sinistra «prende le distanze». Lei che fa?
Io distinguo. Distinguo tra i violenti e gli indignati della manifestazione di Roma. E poi prendo le distanze da entrambi. Tralasciando l’aspetto dell’ordine pubblico, è ovvio che condanno i violenti e lascio alle forze dell’ordine di indagare e verificare le varie responsabilità. Io vorrei affrontarli, ma da un punto di vista politico. La mia generazione ha imparato sulla propria pelle cosa significasse menare in politica, sia che si fosse gruppettari di destra o di sinistra. È un gravissimo errore, non c’è nulla da fare. Penso che in politica bisogna essere gandhiani in senso definitivo.
Per quanto riguarda gli indignati, invece, cioè i manifestanti non violenti, prendo le distanze perché li definisco “bamboccioni”. Sono ragazzi che protestano non perché vogliono cambiare il sistema, non è che chiedano riforme serie, come l’abolizione degli ordini professionali o la liberalizzazione del mercato del lavoro. Semplicemente, rivendicano la loro porzione di sistema. Cioè vogliono pensioni, sovvenzioni, contratti a vita, o tutto quel welfare che hanno avuto i loro genitori. Nessuno, ad esempio, chiede l’abolizione degli ordini professionali, nessuno rivendica il proprio merito dicendo che può farcela: è una posizione conservatrice.
Per quanto riguarda ai No Tav, invece, dico che mi stanno simpatici, perché ho rispetto dei principi dell’autogoverno locale che loro sostengono. Chiedono che ogni comunità abbia il diritto di decidere del proprio destino senza aspettare una decisione dall’alto, ma, in un sistema centralistico come il nostro, sono destinati a soccombere. Poi, c’è che tra loro si mescolano anche i turisti della protesta, quelli che devono distruggere per distruggere, e il discorso torna al punto iniziale.
In questo clima di rivolta, è anche un dato che ci sia una situazione di precarietà economica che ha spinto molti giovani indignati in piazza. Cosa chiede la sinistra riformista rispetto a questo punto?
Prendiamo ad esempio quel che avviene nel settore del giornalismo, dove effettivamente c’è una divisione netta tra giovani precari senza alcuna tutela e professionisti ipertutelati da contratti a vita. Se si abolisse l’ordine professionale, se si abolisse il contratto nazionale e si puntasse alla trattativa aziendale, se si abolissero le sovvenzioni statali ai giornali, e i contratti che devono durare un’intera vita, cosa succederebbe? Che i giornali finalmente andrebbero sul mercato: chi è bravo resta, chi non lo è chiude. E magari si potrebbe scoprire che è ancora più bravo il blog, e la carta stampata non riesce più a reggere la concorrenza. Da sinistra e da riformista voglio che si capisse anzitutto questo: che il diritto di essere assunto equivale al diritto di licenziare, e tutto insieme è diritto al lavoro. Finché non si capisce questo, si resta in una forma di conservatorismo che non fa altro che affossarci.